Risultati immagini per Francis Bacon - La brutalità delle cose.

NON avendo alcuna voglia, come capita spesso ai grandi artisti, di spiegare la propria opera, o peggio di estrarne una teoria, sembra che Annibale Carracci si giustificasse dicendo: Noi altri Dipintori habbiamo da parlare con le mani. La frase, vera o no che sia, è diventata corrente per quell’ uso; ma io me ne sono già servito, nell’ introduzione agli scritti di un pittore inglese quasi coetaneo di Francis Bacon, per rifiutarla; per dire quanto siano invece non solo emozionanti ma quasi sempre di grande valore, a volte anche poetico, le parole, per bocca o per scrittura, degli artisti, quando essi abbiano desiderio o necessità di uscire dal silenzio. Bacon non ha mai scritto, ma con un critico che gli era anche molto amico, David Sylvester, più volte, in tempi diversi, e anche a distanza di anni, ha parlato. Ha risposto a delle domande, come si fa nelle interviste; ritornando, sempre con lo stesso interlocutore, a parlare quasi delle stesse cose, cioè della sua vita e della sua pittura, ma nel corso di circa venticinque anni, dal 1962 al 1986, variando quindi le parole, come variava la vita, variavano la pittura e le idee. Le nove convocazioni che ne sono risultate, hanno formato un libro pubblicato ora anche in Italia (Francis Bacon – La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester – Presentazione di Piero Guccione ed Enzo Siciliano – Fondo Pier Paolo Pasolini, Garzanti, pagg. 168, lire 32.000). Nadia Fusini, che lo ha tradotto con grande aderenza e bravura, se si pensa alla difficoltà di rendere quel parlato, dice in uno scritto che accompagna la traduzione: siamo di fronte a un dialogo, la primitiva, originaria forma del dramma; è certamente giusto; ma a me, alla fine della lettura, è sembrato di aver ascoltato un grande monologo, che è anch’ esso una forma di dramma. Poiché in queste conversazioni a due voci, tutto il senso, la profondità, il grido, la passione, sono concentrati nella voce di Bacon, al punto che è questa spesso a provocare, a richiedere, delle domande, cui dare altre risposte, e così via. Noi sentiamo un’ unica voce drammatica, con le sue variazioni di tono, la sua violenza, il suo sussurro, il suo flusso o la sua concentrazione, le sue pause, i suoi improvvisi o il suo ragionare; gran risultato della traduzione aver riprodotto la sottigliezza e il teatro di tutti questi cambiamenti. Riprodurre un caos ordinato Il libro è di vera bellezza. Non si può fare a meno di usare questa parola, anche se essa sembra di continuo contraddetta, allo stesso modo che sembra contraddetta dalla pittura di Bacon. Ma è una parola inevitabile; e quando si sarà letto il libro si capirà quanto essa contenga di altro, ma come, anche così dilatata, resti una parola inamovibile, appunto inevitabile. Il libro diventa una specie di sacra rappresentanzione in cui l’ autore mette in scena se stesso, nella più completa offerta, nudità, e dolorosa grandezza; sé stesso, cioè una vita e un’ opera assolutamente non sacre; disperate. Bacon dice tutto di sé, semplicemente, e con una obiettività così tranquilla come se parlasse di un altro; tutto, dalla giovinezza di poco amore per i genitori, abbandono della casa, prime esperienze erotiche, fino al caos della maturità e vecchiaia. Vediamo una vita estrema; in ogni direzione, nel non tener conto del denaro, né delle convenzioni, nell’ essere tutto affondato entro la pittura, nel seguire il caso come un dio crudele e oscuro; una vita eccessiva, avventurosa, disperata e bellissima; dominata dall’ avidità, per ogni cosa, il mangiare, e bere, amare, giocare, dipingere. Le fotografie del suo studio, di cui una pubblicata anche in questo libro, danno l’ immagine del caos: tutte le cose che gli servono, o di cui è avido, si accatastano in quello spazio, lentamente, progressivamente, si stratificano, si sovrappongono, rispettando solo le leggi sconosciute del caso: colori, macchie, polvere, barattoli, pennelli, immagini, fotografie, riproduzioni di pittura, libri, borse, tele, scatole; un supremo disordine ha mescolato ogni cosa, avvicinato cose inavvicinabili, unito epoche diverse, come se la marea del tempo avesse depositato l’ immensa congerie dei suoi detriti su quella spiaggia entro una casa di Londra. E in mezzo a tutto sta seduto l’ autore di quel caos, da lui prodotto e scelto, oggetto per oggetto, macchia per macchia, sta seduto, dominandolo e contraddicendolo, con il suo volto largo e rotondo, gli occhi piccoli e geniali, il suo amore per la pulizia, il suo desiderio di ordine. Ogni tanto da quella massa confusa esce, per caso, una fotografia di Lucien Freud o di Isabel Rawsthorne, la pagina di un libro di Muybridge o di un libro sugli animali selvaggi, la riproduzione di un autoritratto di Rembrandt o di Van Gogh, calpestati, sfregiati, ingialliti; ma, emersi dal magma, arrivano di colpo alla dignità di soggetti, che divorano l’ anima; partendo da loro Bacon dipingerà un quadro. Quel caos dello studio sembra una metafora dell’ inconscio, dove l’ ordine è misterioso e il tempo non misurabile; dal quale per incontrollata associazione affiora un’ immagine, un ricordo, utili e destinati a gettar luce sulla realtà. Che l’ opera di Bacon provenga direttamente dall’ inconscio, è quanto lui stesso ripete di continuo in queste conversazioni: Per me, funziona quando perdo la coscienza di ciò che sto facendo. L’ immagine sembra venire da ciò che abbiamo deciso di chiamare inconscio. Più che un pittore io penso di essere un medium. Fino ad identificare pittura e inconscio: E’ del tutto inutile parlare di pittura, anche se non si fa altro, perché se si riuscisse a spiegarla avremmo spiegato l’ inconscio. Ma ecco che da quel punto estremo nasce il suo contrario; e solo unendo quei contrari la realtà avrà senso, la vita avrà valore, la pittura avrà poesia. Nasce l’ esigenza dell’ ordine. Il mondo è caos, la realtà è caos, lo studio è caos. Con la pittura Bacon vuole dare ordine al caos, vuole riprodurre, o creare, un caos ordinato. La grande arte è profondamente ordinata, nasce dal desiderio di riordinare la realtà, incorporando elementi di disordine quali l’ istinto e la casualità. Questo è l’ unico modo per dipingere la realtà. E dipingere la realtà è l’ unico scopo di Bacon. Per tale ragione ama tanto la fotografia, e usa come soggetto la fotografia; poiché ha scoperto che il leggero scarto rispetto alla realtà, che essa produce, rimanda alla realtà con più violenza. Come se la fotografia rivelasse nella realtà ciò che la realtà vista, vissuta, toccata, nasconde. Dice Bacon per spiegare le sue intenzioni: Per me si tratta veramente di costruire la trappola che catturi la realtà nel suo punto più vitale. Se Bacon dipinge il grido, di un uomo, di un papa, di un babbuino; o la Crocefissione, come un essere macellato appeso al legno, come una Crocefissione di Cimabue rovesciata; o un accoppiamento amoroso; o una figura con la siringa ipodermica piantata nel braccio; lo fa per inchiodare nel modo più forte possibile l’ immagine della realtà, per trasformare in una immagine assoluta la brutalità del reale. Piero Guccione, nel suo discorso introduttivo, si chiede se Bacon sia un realista, e si risponde che Lucian Freud è un realista. E’ sicuramente vero; ma in Bacon c’ è più realtà, c’ è la scossa; poiché Bacon tocca il sistema nervoso della figura. Una lotta tra istinto e ragione Non intendo con questo che la sua arte sia figurativa. L’ immagine che cerco sta come una specie di funambolo sulla corda tesa che separa la pittura cosiddetta figurativa da quella astratta. Non appartiene né all’ una né all’ altra. Bacon non si stanca fin dall’ inizio di rifiutare nell’ immagine pittorica l’ illustrazione e di conseguenza il racconto, il rapporto narrativo, che si stabilisce tra una figura e l’ altra o tra un oggetto e l’ altro; quegli elementi cioè che caratterizzano l’ arte comunemente detta realistica. Ne è così lontano che non dipinge mai due figure nello stesso quadro, se non quando sono allacciate in un amplesso, per paura che tra di loro nasca una corrente di narrazione; quando ha bisogno di più figure, di solito le divide, le distanzia, in trittici. Così la figura resta isolata; non soltanto per la sua solitudine, ma per la necessità di espressione immediata, diretta, non illustrativa. Una grande, stupenda contraddizione, propria della grande arte, domina tutto il lavoro di Bacon. Egli la indica come lotta tra caso e giudizio critico, o, si è già visto, tra caos e ordine, tra istinto e ragione. Il genio di Bacon sta nel fondere i due lati in opere che sono tra le più potenti ed estreme dell’ arte contemporanea. Ed anche le più belle, proprio nel senso di quanto può essere bella la pittura. Niente mi ha emozionato di più, ascoltando Bacon parlare, di quando dice: Sono sempre stato pazzo di Monet, anche quando non piaceva a nessuno. Anzi mi ricordo che la gente diceva: Sono proprio dei gelati. Lo guardavano, ma non vedevano Monet. Non lo vedono neanche oggi, sembra; almeno in Italia; non hanno visto la più bella mostra che di Monet si sia fatta, quella delle serie nell’ autunno scorso a Londra. L’ enorme ricchezza del colore E che Bacon intenda proprio l’ enorme forza, ricchezza, estremismo e poesia del colore, e la conseguente profondità di senso anche se si tratta di natura, lo dimostra quando afferma che il colore di Velazquez è quello di Monet; e quando dichiara, a proposito del grido in alcune sue figure: ho sempre sognato di dipingere la bocca come Monet dipinge un tramonto; ancora, e soprattutto, quando, nominando i più grandi pittori della storia, i suoi fari, a Michelangelo, Rembrandt, Velazquez, accompagna Monet. Poiché il suo amore per Monet non mi sembra il contraltare del suo maledettismo, ma il completamento, il fiore, del suo maledettismo, cioè del suo essere estremo.

di ROBERTO TASSI (La Repubblica 5 Marzo 1991)

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